Testo introduttivo di Roberto Mutti, Storico e critico della Fotografia
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VIAGGIO ALL’INTERNO
DI UN MUSEO
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Entrare in un museo è sempre un’esperienza suggestiva perché si sa che non si Incontreranno solo le opere lì custodite ma anche la logica con cui sono state proposte, la luce che le valorizza, gli accostamenti con altre che danno un senso al percorso espositivo. Mettere piede in una casa-museo come è il Poldi Pezzoli aggiunge molto a tutto questo perché lì si percepisce anche lo spirito che ha guidato il collezionista e che ancora aleggia nelle sale, sia in quelle che hanno conservato l’aspetto originario sia quelle che, a seguito dei bombardamenti del secondo conflitto mondiale, sono state ripensate interpretandone in chiave moderna il senso.
Può apparire strano, ma visitare il Poldi Pezzoli a distanza fruendo della tecnologia che può accompagnare in un viaggio virtuale conserva un suo particolare fascino. Soprattutto se il percorso si arricchisce di elementi di contorno grazie ai quali altre prospettive appaiono improvvise: la fotografia ha la capacità di crearle perfino partendo da pochissimi ma preziosi elementi. In questo caso si tratta di un lascito fotografico il cui valore per un verso è legato alla documentazione storica di come era all’origine il museo e dall’altro allo stile degli autori che rispecchia l’estetica dell’epoca in cui sono vissuti.
La campagna fotografica assegnata allo Studio Montabone e realizzata da Carlo Marcozzi era pressoché unica nel suo tempo – siamo alla fine dell’Ottocento – e indica l’audacia culturale di chi decise di affidarsi a questa nuova arte per documentare le sale, gli arredi e le opere del museo in modo minuzioso visto che l’intero lavoro consta di oltre centosessanta fotografie su lastra. Più che la precisione dei dettagli (si comprende che lo studio, specializzato in ritratti, doveva talvolta misurarsi con complessi problemi di illuminazione) ciò che colpisce è l’ampiezza e la preziosa completezza del lavoro.
Di migliore qualità sono le riprese di Domenico Anderson. Figlio di James Anderson (pseudonimo di Isaac Atkinson) anche lui fotografo affermato, fu fra i primi a utilizzare la tecnica del collodio secco che permetteva di lavorare senza portarsi appresso un laboratorio, come invece succedeva con il collodio umido. Ma il segno del suo stile si riscontra nell’attenzione per la luce.
Capace di attendere anche per lungo tempo l’illuminazione giusta proveniente dalle finestre, usava perfino dei grandi specchi per indirizzarla dove voleva per rendere plastici i soggetti che riprendeva con grande perizia. I fratelli Leopoldo, Giuseppe e Romualdo Alinari hanno raggiunto una meritata grande fama per due precise ragioni: la prima era la loro bravura acquisita “a bottega" in studi come quello, rinomatissimo a Firenze, di Luigi Bardi e poi sviluppata con una curiosità per il nuovo che li ha portati a gettarsi con entusiasmo nella nuova invenzione di cui ancora molti non conoscevano le potenzialità. La seconda è stata quella capacità imprenditoriale che li spinse da subito a passare dai piccoli studi che allora già proliferavano a una vera e propria azienda con decine di impiegati nel settore della ripresa come in quello dello sviluppo, della stampa, della promozione delle proprie attività.
Possiamo così immaginare il loro arrivo a Milano davanti al Museo Poldi Pezzoli: un grande carro con le macchine fotografiche, un altro con i bauli contenenti le lastre in vetro come erano allora le pellicole, uno più piccolo con pannelli e specchi da usare per indirizzare la luce naturale fino ai punti più lontani e bui. Allora si usavano ingombranti fotocamere a banco ottico dette “da terrazza”, si inquadrava osservando con grande attenzione dalla parte posteriore su un vetro smerigliato protetti da un panno nero attendendo il momento giusto per scattare e solo quando si era sicuri si inseriva la lastra e si scattava.
La luce elettrica non era stata ancora inventata e l’abilità nell’usare quella naturale conferisce alle fotografie degli Alinari quella morbidezza e quella plasticità che le rende uniche. È stato detto giustamente che la loro è una visione che immortala il presente senza alcuna proiezione verso un possibile futuro ma questo era il frutto della loro formazione e della pittura classica al cui modello si ispiravano. Le immagini qui realizzate sono un vero e proprio esercizio di stile: basta osservare come riescono a riprendere le teche in vetro evitando i fastidiosi riflessi e mostrando fin nei dettagli gli oggetti lì dentro contenuti.
Tutte queste immagini dimostrano che anche le fotografie realizzate per descrivere un
luogo senza particolari intenti creativi assumono una valenza che va oltre a quella documentativa. Non solo perché possono riprodurre, come in questo caso, realtà ormai scomparse ma anche perché molto ci dicono di come i nostri progenitori osservassero in modo diverso da noi la realtà.
il museo poldi pezzoli nelle sue fotografie storiche
Siamo molto contente di aver contribuito alla realizzazione di questo progetto insieme ai giovani del Museo Poldi Pezzoli. Aver avuto questa possibilità è stato motivo di orgoglio ma soprattutto è stata una grande occasione che ci ha permesso di arricchire il nostro bagaglio sia dal punto di vista personale che dal punto di vista artistico culturale, essendo uno dei musei più apprezzati e più importanti della città di Milano, sede di importanti collezioni.
Nei trenta ambienti della casa si può rimanere affascinati dalla moltitudine di oggetti appartenenti alla collezione del padrone di casa Gian Giacomo Poldi Pezzoli, tutti diversi e molto particolari, suddivisi in base al tema della sala. Queste sono allestite per evocare epoche storiche che vanno dal medioevo all’epoca contemporanea, rendendo tutto ancora più unico e affascinante.
Lo Studiolo dantesco, lo studio privato del collezionista, concepito come un prezioso scrigno per le sue collezioni di vetri, oreficerie, smalti, porcellane, manufatti di metallo lavorato, è infatti caratterizzato da vetrate, dipinti murali e arredi che si ispirano al periodo in cui Dante è vissuto. Si qualifica così come un perfetto esempio di allestimento revivalista; progettato da Giuseppe Bertini e Luigi Scrosati, fu realizzato tra il 1853-1856. La fotografia di Luigi Montabone [m. 1877] attraverso la sottile variazione dei chiari e degli
scuri valorizza gli affreschi, la vetrata dipinta con Dante e episodi della Divina Commedia e quello che rimane dei preziosi arredi originari di Giuseppe Speluzzi. Questo criterio storicistico di allestimento venne impiegato anche nel Salone dorato, una tra le sale più importanti, destinata a ospitare molti degli oggetti più pregiati della collezione, decorata in stile rinascimentale; presentava un soffitto a cassettoni e le pareti erano affrescate dal Bertini con un fregio di putti e festoni e figure allegoriche.
Nella fedele riproduzione fotografica dello Studio Alinari si individuano alcuni dei più celebri dipinti della collezione tra cui la celebre “Dama” di Piero del Pollaiolo, l’immagine simbolo del Museo.
La qualità della fotografia della società Fratelli Alinari, Leopoldo [1832-1865] Giuseppe [1836-1890] Romualdo [1830-1890], è testimoniata dalla precisione con la quale vengono mostrati gli oggetti affastellati dentro le teche, eliminando i riflessi del vetro.
Un altro ambiente simbolo del museo è la Sala d’armi, un tempo al piano nobile ed ora al piano terra; fu la prima ad essere stata allestita intorno al 1846 con un sontuoso arredo neogotico accompagnato da stucchi, vetrate e naturalmente da armi di ogni tipo, disposte in una successione di spazi simmetrica. La sala, inoltre, era dominata da questo effetto teatrale tipico dello stile neogotico. Fotografata da Domenico Anderson [1854-1938] con una straordinaria attenzione agli effetti luministici su armi ed armature, anche grazie all’uso di specchi per deviare la luce dalle finestre, ci mostra la ricchezza di quella che fu la prima passione collezionistica del conte.
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A causa dei bombardamenti del 1943 molte sale andarono distrutte, in particolare la Sala d’Armi insieme al suo allestimento che venne reinventato dall’artista contemporaneo Arnaldo Pomodoro intorno agli anni 2000. Si tratta di un intervento museografico molto innovativo, uno dei primi realizzato in una casa museo ottocentesca, che interpreta in maniera visionaria e fantastica il tema della guerra. Tutti gli allestimenti precedenti sarebbero stati dimenticati se non fosse per le testimonianze fotografiche realizzate verso la fine del diciannovesimo secolo da Luigi Montabone, Domenico Anderson, e dallo Studio Alinari nella prima campagna fotografica dedicata a un museo per volontà del direttore Giuseppe Bertini. Luigi Montabone, la cui specialità è il ritratto e la fotografia di viaggio, è stato premiato all’Esposizione nazionale di Torino nel 1872 ed ha anche partecipato alla missione diplomatica italiana in Persia; parecchie sono le succursali che apre in varie città italiane intorno al 1889. Domenico Anderson invece continuò l’attività del padre James, uno dei pionieri della fotografia nella città di Roma, producendo una capillare documentazione del patrimonio storico artistico e paesaggistico italiano ma anche svolgendo varie attività all’estero. Saranno poi i figli a seguire le orme del padre fino a quando l’intero archivio entrerà a far parte degli Archivi Alinari di Firenze. La Società Fratelli Alinari fondata a Firenze nel 1854 da Leopoldo con i fratelli Giuseppe e Romualdo è la più antica azienda in ambito italiano a cui si deve la prima sistematica campagna fotografica di documentazione del nostro patrimonio artistico ed anche la preziosa documentazione di alcuni tra i più importanti ambienti della casa museo di Gian Giacomo Poldi Pezzoli.
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Testo a cura di Giulia Montaruli, Silvia Falco, Carlotta Zandali
5G Liceo Artistico Statale “Umberto Boccioni” Milano